Quando due nomi come Goichi “SUDA51” Suda e Hidetaka “SWERY” Suehiro si uniscono per un progetto, è naturale aspettarsi qualcosa di unico. Gli autori di No More Heroes e Deadly Premonition condividono una visione del videogioco come spazio anarchico, surreale, un palcoscenico dove il nonsense e il genio convivono in equilibrio precario. Purtroppo, Hotel Barcelona è la prova che l’alchimia tra due menti folli non sempre genera oro: a volte produce solo confusione.
L’idea: un motel dell’assurdo
Sulla carta, Hotel Barcelona è una bomba a orologeria pronta a esplodere. La premessa unisce la follia surreale di Deadly Premonition all’anarchia visiva di No More Heroes: un cocktail di sangue, grottesco e ironia nera che solo SUDA51 e SWERY avrebbero potuto servire.
Vestiamo i panni di Justine, un’agente federale dal passato nebuloso e una mente affollata. Dentro di lei si nasconde Dr. Carnival, una seconda personalità tanto carismatica quanto mostruosa, un’entità che vive di caos e violenza, pronta a emergere ogni volta che il sangue chiama. Dopo un misterioso incidente d’auto, Justine si ritrova bloccata in un luogo che sfida la logica: un hotel nel mezzo del nulla, abitato da sette serial killer, ciascuno con la propria estetica, la propria follia e i propri peccati da esibire come trofei. L’albergo diventa così un microcosmo del delirio umano: un labirinto di corridoi che si piegano su se stessi, un set teatrale dove la realtà si contorce e l’identità si frantuma. È una visione che sembra uscita da un sogno febbrile di David Lynch, rielaborata però con la spavalderia punk di SUDA51.

L’atmosfera è quella giusta: un Grindhouse interattivo in cui l’eccesso è la norma, e dove ogni dialogo si muove tra il geniale e l’assurdo. Gli echi di Twin Peaks si mescolano al surrealismo ipercinetico di Killer7, creando una miscela che promette introspezione, ironia e tanto, tantissimo sangue. Peccato che questa brillante follia narrativa non riesca a reggere il peso del gameplay. Appena si impugna il controller, la tensione narrativa evapora come il fumo di una sigaretta accesa nella hall: la messa in scena resta intrigante, ma l’interattività fatica a starle dietro.
L’hotel dei sogni, o meglio, degli incubi, si rivela un palcoscenico affascinante, ma vuoto, dove l’azione fatica a trovare un ritmo e la follia non riesce a tradursi in piacere ludico. In sostanza, Hotel Barcelona ha tutte le premesse per essere un cult: idea forte, ambientazione magnetica, personalità autoriale. Ma come un film di mezzanotte girato troppo in fretta, finisce per sembrare più un trailer di ciò che avrebbe potuto essere, piuttosto che l’opera compiuta che speravamo di giocare.

Danse Macabre con i tacchi di cemento
Hotel Barcelona si presenta di fatto come un action 2.5D a scorrimento laterale, a metà strada tra un roguelike e un metroidvania. Sulla carta, il risultato dovrebbe essere un’esperienza tesa, metodica e gratificante, in cui ogni movimento conta e la morte è solo un passo verso la padronanza. In pratica, però, il sogno si infrange al primo colpo sferrato.
Il sistema di combattimento, infatti, è goffo, rigido e impacciato, quasi in contrasto con il caos visivo e narrativo che lo circonda. Ogni azione, che si tratti di un attacco leggero, di una combo o di una schivata, ha un ritardo percettibile, come se Justine fosse costretta a combattere immersa nella melassa. La risposta ai comandi è lenta, e l’animazione di ogni mossa ti blocca in un’inerzia da cui non puoi sfuggire. Ne risulta un combat system che non premia la precisione, ma la fortuna: colpire o evitare un attacco spesso dipende più da quanto il gioco decide di “perdonarti” che dalla tua abilità.

I nemici, per contro, non mostrano alcuna pietà. Anche al livello di difficoltà più basso, bastano due o tre colpi per morire, e le finestre di invulnerabilità durante le schivate sono talmente brevi da sembrare inesistenti. Il paradosso è che, mentre il gioco chiede una certa “tatticità”, il suo stesso input lag rende impossibile applicarla con coerenza. Le possibilità di recupero, poi, sono minime: ogni livello concede soltanto due oggetti curativi, uno dei quali è di solito piazzato prima del boss. Questa economia spietata non crea tensione, ma solo frustrazione, perché ogni errore, anche dovuto a un input mancato, viene punito con la perdita di tutto.
E se non bastasse, Hotel Barcelona decide di complicare ulteriormente le cose con una meccanica di invasioni online ala souls. In qualunque momento, altri giocatori possono entrare nella tua partita e darti la caccia, anche nel bel mezzo di uno scontro con un boss. È un’idea che, se bilanciata, potrebbe aggiungere adrenalina e imprevedibilità. Ma qui risulta intrusiva, sbilanciata e profondamente frustrante: gli invasori spesso arrivano con statistiche sproporzionate, capaci di ucciderti con un singolo colpo. Il colmo? L’unico modo per disattivare le invasioni è comprare un oggetto all’inizio di ogni run, sprecando preziosa valuta di gioco (oppure giocare in modalità offline, più semplicemente). Una scelta inspiegabile, che dà la sensazione di essere stata inserita solo per punire il giocatore o, peggio, per allungare artificialmente la durata dell’esperienza. C’è un’idea dietro a tutto questo: quella di un combattimento “ponderato”, che costringe il giocatore a convivere con la lentezza e la vulnerabilità della protagonista , ma il risultato finale non è metodico, è solo impacciato. L’intenzione artistica affonda nella cattiva esecuzione tecnica, e la tensione si trasforma presto in irritazione.

Hotel Barcelona voleva essere una danza macabra, lenta e crudele, ma finisce per sembrare una coreografia con i tacchi di cemento: ogni passo pesa, ogni movimento costa fatica, e la musica si ferma molto prima della fine.
Nasce, muore, maledice
Il sistema roguelike di Hotel Barcelona nasce con l’intento di dare ritmo e profondità all’esperienza, di spingere il giocatore a migliorarsi run dopo run, come in un incubo da cui si può fuggire solo diventando più forte. Sulla carta, è un’idea perfetta per un titolo che parla di identità frammentate e cicli di violenza. Nella pratica, però, si trasforma in una spirale di frustrazione che soffoca qualunque senso di progressione. Dopo ogni morte (e morirai spesso) Justine perde tutte le risorse accumulate, compresi gli upgrade e i materiali necessari per potenziare le armi. Solo sconfiggendo il primo boss si ottiene il diritto di conservare un misero 5% del bottino, un premio talmente esiguo da sembrare una presa in giro più che una ricompensa. Il risultato è che ogni run si apre con la sensazione di ripartire da zero, non con quella di avanzare.
È una struttura che non genera tensione, ma stanchezza. Il rischio e la perdita sono elementi fondamentali del genere roguelike, ma qui mancano il bilanciamento e la gratificazione: ogni passo avanti costa troppo, e ogni errore, anche dovuto al già citato input lag, è un ritorno forzato all’inizio, senza nulla di nuovo da scoprire.

L’unica idea davvero originale del sistema è la presenza del “fantasma del passato”, una proiezione spettrale di ciò che abbiamo fatto nelle run precedenti che appare in ogni nuova partita per aiutare la Justine in corso, similmente al ghost dei giochi di corse automobilistiche. Un concept interessante, che avrebbe potuto incarnare il tema della memoria e della colpa, oltre che fornire un utile alleato in battaglia. Purtroppo, l’esecuzione è deludente: questo “fantasma” combatte in modo automatizzato replicando alla lettera tutti i movimenti fatti precedentemente, infligge danni modesti e raramente incide davvero sull’esito di uno scontro. Contando poi che lo spawn dei nemici è randomico, spesso lo vedremo menare fendenti a vuoto, mentre i nemici compaiono altrove.
Ci si accorge della sua presenza solo quando muore, di nuovo, scomparendo nel nulla, lasciandoci più amarezza che sollievo.
Nemmeno la progressione delle armi o delle abilità riesce a dare sapore alla ripetizione. Le migliorie delle prime sono legate a un sistema di potenziamento che non è altro che una scommessa: le sudate risorse accumulate con fatica possono scomparire in un attimo lasciandoci a bocca asciutta, oppure generare "potenziamenti" nelle armi che non valgono minimamente l'investimento effettuato. Un design che, invece di stimolare la sperimentazione, premia la pazienza cieca e punisce la pianificazione, riducendo ogni tentativo di build a una questione di fortuna.
Forma senza sostanza
Se Hotel Barcelona colpisce in qualcosa, è nel suo immaginario visivo: un tripudio di colori acidi, sangue e grottesco, capace di restituire l’assurdo universo di SUDA51 e SWERY in ogni dettaglio. I dialoghi sono esagerati, teatrali, punteggiati da umorismo nero e citazioni pop che oscillano tra il geniale e l’autocompiaciuto. I personaggi sembrano usciti da un incrocio tra un fumetto underground e un film horror anni ’80: maschere, carne, follia e ironia convivono in una parata di freaks affascinanti e disturbanti. La narrazione, come da tradizione dei due autori, è un delirio controllato, o almeno vorrebbe esserlo. È paranoica, frammentaria, volutamente incoerente, eppure manca di quella scintilla che trasformava i loro precedenti lavori in esperienze cult. La sensazione è che nessuno dei due creatori abbia davvero preso in mano la regia finale: il risultato è un mosaico disordinato, in cui si riconoscono le singole tessere della loro poetica, ma senza una visione comune a tenerle insieme.

Anche il comparto tecnico e sonoro contribuisce a questa impressione di incompletezza. Il mondo di gioco, pur visivamente interessante, risulta stranamente muto: mancano musiche capaci di scandire il ritmo, e il sound design è piatto, privo di quella stratificazione acustica che avrebbe potuto amplificare la tensione e il senso di assurdità. Sul piano delle prestazioni, Hotel Barcelona non è disastroso ma nemmeno stabile: input lag, stuttering e cali di framerate erodono ulteriormente la precisione di un gameplay che già non brilla per reattività.
Il risultato finale è un’opera piena di stile ma povera di sostanza. Si percepisce l’intento artistico, la volontà di costruire un’esperienza fuori dagli schemi, ma tutto resta intrappolato nella superficie. Dietro la facciata pop e la violenza estetizzata si cela un gioco incompiuto, dove il fascino dell’assurdo non riesce a mascherare meccaniche sbilanciate, una progressione punitiva e una direzione ludica confusa.
In conclusione
Hotel Barcelona è l’emblema di un sogno malriuscito, un esperimento ambizioso che affonda nel proprio caos. È un gioco che vuole essere tutto e il contrario di tutto: satira e horror, metroidvania e roguelike, spettacolo pulp e riflessione sulla violenza. Invece di fondere questi elementi in una visione coerente, li lascia galleggiare in un mare di buone intenzioni e cattive esecuzioni. C’è talento, c’è stile, c’è persino una certa poesia nel fallimento, ma è una poesia che si perde sotto la polvere del suo stesso gameplay. Il gioco non è terribile, né ingiocabile: è semplicemente vuoto al centro, un contenitore brillante che, dopo qualche ora, lascia solo la sensazione di aver soggiornato in un posto affascinante ma privo di anima.
Da SUDA51 e SWERY ci si aspettava un incubo geniale. È arrivato solo l’incubo.

5.3Voto KotaWorld.it6.5Grafica4.5Gameplay5Ottimizzazione





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