Silent Hill f nasce da una scelta precisa: allontanarsi dall’immaginario occidentale delle ultime iterazioni per abbracciare l’horror giapponese d’epoca. NeoBards Entertainment sviluppa, Konami pubblica, ma il vero ago della bussola è la scrittura di Ryukishi07, autore che ha fatto della ciclicità narrativa, dei punti di vista multipli e della rivelazione graduale un marchio di fabbrica. L’azione si sposta nella Ebisugaoka degli anni ’60, un Giappone sospeso tra modernizzazione e tradizione, patria ideale di superstizioni, ruoli sociali rigidi e colpe tramandate. La serie ritrova così la sua dimensione più intima: non l’orrore come spettacolo, ma l’orrore come riflesso della realtà. E lo fa con un’estetica floreale e putrescente che ri-scrive persino la grammatica del disgusto: il “mostruoso” si intreccia al “bello” finché le categorie non crollano.
Un incubo in fiore
Hinako Shimizu è, all’apparenza, una ragazza come tante. Una liceale che scende in città per un incontro con gli amici dopo una lite con i genitori...ah signora mia questi adolescenti. Ma come da tradizione della saga, la normalità si incrina presto: in città pare non esserci anima viva fatta esclusione per Shu, Rinko e Sakuko, la sua cerchia di amici. Mentre la combricola chiacchera più o meno allegramente di fronte all'emporio del quartiere, una densa nebbia cala su Ebisugaoka e, con essa, una proliferazione di flora innaturale e carnivora invade le strade, soffoca gli edifici, digerisce corpi e memorie. Non si tratta di un mero espediente estetico: l’immaginario floreale è il fulcro simbolico di Silent Hill f. I fiori che si aprono e si moltiplicano diventano la traduzione visiva del modo in cui la società colonizza i corpi, infiltra le scelte, plasma le identità. Bellezza e minaccia convivono nello stesso petalo: ciò che promette crescita e vitalità cela, in realtà, il pericolo della sottomissione e dell’assimilazione.

È qui che la scrittura di Ryukishi07 mostra la sua doppia anima. Da un lato, c’è la narrazione esplicita, con Hinako intrappolata in un incubo vegetale dal quale deve fuggire per salvare se stessa e gli amici; dall’altro, c’è un sottotesto che parla di ruoli sociali imposti, di identità negate e di libertà recise alla radice. Non è un caso che il contesto storico sia il Giappone degli anni ’60, decennio in cui la spinta alla modernizzazione conviveva con il peso di tradizioni rigide, soprattutto sul piano del ruolo femminile. Hinako diventa così emblema di un’intera generazione di donne: sospese fra il desiderio di autodeterminazione e le catene invisibili delle aspettative altrui. Le sequenze simboliche, tuttavia, non vengono mai sbattute in faccia al giocatore con didascalismo. Sono insinuanti, sottili, perfino silenziose. Ti passano accanto come dettagli trascurabili, quanto meno durante il primo playthrough, e solo in seguito, ricomponendo i tasselli, ti accorgi del loro peso. È un orrore che lavora in differita, che ti rimane addosso come un profumo acre, e che trova la sua massima forza proprio quando il senso ti esplode in mente con qualche minuto, o a volte più, di ritardo.

Il risultato non è l'horror spicciolo da fiera dei jumpscare, ma un horror psicologico sottile, una vera e propria malinconia che grava sulle spalle dal primo all'ultimo minuto. Alcune immagini si imprimono nella memoria con una densità quasi fisica: non terrorizzano nel senso convenzionale, ma opprimono, ti obbligano a rallentare, a riprendere in mano il pad con una consapevolezza diversa alla fine di ogni cutscene. È in quella lentezza pesante, in quel sentirsi schiacciati da un significato che ti supera, che Silent Hill f riesce a riscoprire una delle corde più autentiche della serie: la capacità di far paura non attraverso il boato, ma attraverso la rivelazione del vuoto che ci circonda e delle radici che, spesso senza accorgercene, ci tengono prigionieri.
Anche l'angoscia ha bisogno di respiro
Se c’è un elemento destinato a dividere i giocatori di Silent Hill f, questo è senza dubbio il suo sistema di combattimento. Sulla carta, il ventaglio di meccaniche è ampio e apparentemente ambizioso: barra della stamina, parry, schivate perfette con rallenty, boss fight strutturate a fasi, esecuzioni coreografiche, barre di focus, amuleti che aggiungono sotto-sistemi e, a completare il quadro, la degradazione delle armi, un richiamo aggiornato alle intuizioni già viste in Silent Hill 4. L’intento sembra chiaro: modernizzare la formula della sopravvivenza, avvicinandola a quella dei grandi action contemporanei (online si parla di questo capitolo come un souls-like horror ormai) senza rinunciare al peso della vulnerabilità. Pad alla mano, però, il risultato oscilla: a volte regge, altre volte finisce per contraddire lo spirito stesso della saga.

Negli scontri uno contro uno, l’impianto funziona. C’è un certo piacere nel leggere i movimenti nemici (o provarci, quantomeno), colpire nelle finestre giuste e gestire con attenzione il posizionamento. Il problema emerge quando l’arena si stringe, quando i nemici si moltiplicano o ostruiscono deliberatamente i passaggi, quando pozze velenose invadono il terreno costringendo a soste forzate. In quei momenti, l’atmosfera horror si sbriciola e lascia spazio a una sensazione di macchinosità artificiale. Hinako, coerentemente con la sua natura di ragazza comune, è lenta e fragile: ma quando la sua lentezza si somma a hitbox imprecise, corridoi soffocanti e routine di inseguimento punitive, il risultato non è più tensione, bensì frustrazione. Non che il sistema sia sbagliato in sé: il vero problema è che sembra troppo spesso di troppo per il tipo di paura che Silent Hill ha storicamente coltivato, fondata non sull’abilità tecnica ma sull’angoscia di non sapere se fuggire o affrontare.
A complicare ulteriormente la situazione interviene una curva di difficoltà sbilanciata. In modalità storia, gli scontri risultano talmente permissivi da ridurre il senso di minaccia; in modalità difficile, invece, le battaglie obbligatorie si trasformano in colli di bottiglia interminabili, che soffocano l’esplorazione e gonfiano artificiosamente il ritmo. È paradossale, perché il diario-tutorial del gioco insiste proprio sul concetto che “sopravvivere significa capire quando combattere e quando correre”: ma il level design, costringendo spesso a confronti inevitabili, contraddice questa premessa, sacrificando l’ambiguità a favore di una rigidità che non appartiene alla tradizione della serie.

Non va meglio sul fronte della gestione delle interfacce. L’over-guidance è onnipresente: pop-up invadenti ricordano a intervalli regolari cosa fare (“risolvi l’enigma”, “scappa dal mostro”), spegnendo quello smarrimento fecondo che è da sempre la linfa vitale di Silent Hill. La mancanza di opzioni per disattivare HUD e obiettivi non è un semplice dettaglio: è un difetto strutturale, che priva il giocatore di quella sensazione di perdersi e di dover interpretare segnali sottili, patrimonio dei capitoli storici. Anche l’inventario contribuisce ad alimentare fastidi: capienza ridotta, necessità continue di trade-off e ritorni ai santuari per convertire risorse in punti fede creano un ciclo di micro-gestione forzata, che rischia di rallentare il ritmo proprio nei momenti di maggiore pressione. E se l’idea di fondo, obbligare a scegliere, rinunciare, sacrificare, funziona sul piano concettuale, nella pratica diventa tediosa, specie quando il menu va gestito con i nemici alle calcagna.
Il risultato è un’esperienza che fatica a trovare equilibrio. Quando Silent Hill f si concede la libertà di rallentare, enigmi ariosi, la mappa illustrata, le note del diario, i corridoi in cui un suono lontano ti obbliga a fermarti e ascoltare, il gioco mostra la sua vera forza, e si eleva fino a sfiorare la grandezza dei classici. Ma non appena il ritmo viene ingabbiato da combattimenti forzati e micro-gestioni invadenti, il filo dell’angoscia si spezza. E allora il pensiero corre spontaneo: sarebbe bastata una manciata di opzioni per personalizzare HUD e densità di incontri, un paio di forbici al backtracking superfluo, e Silent Hill f avrebbe potuto risolvere gran parte delle sue contraddizioni senza tradire la sua identità.
Tre volte all’inferno
Terminare il gioco una volta non significa affatto averne visto il volto completo: il primo finale, per certi versi anche deludente, rappresenta solo un tassello di un mosaico più ampio. L’opera ti chiede esplicitamente almeno tre playthrough completi per poter essere davvero compresa. E non si tratta di un capriccio: ogni nuova run aggiunge strati narrativi, cutscene inedite, dialoghi ricalibrati, appunti e indizi che assumono nuovi significati. È un approccio che richiama immediatamente NieR: Automata: non un New Game+ “quantitativo”, che aumenta i numeri, ma un New Game+ qualitativo, dove la ripetizione diventa strumento di scavo e progressiva rivelazione.

C’è però un prezzo da pagare. Ampi tratti delle run successive restano identici, e la reiterazione può risultare faticosa per chi non ama rivivere lunghi corridoi e incontri già sperimentati. Il gioco cerca di venire incontro al giocatore esplicitando in modo chiaro gli obiettivi e le condizioni necessarie per accedere ai finali alternativi, una scelta onesta e rispettosa che evita la caccia al dettaglio criptico tipica dei capitoli più vecchi. Tuttavia, una maggiore aggressività nel tagliare le ridondanze e nel differenziare più nettamente le seconde e terze run avrebbe reso l’esperienza meno gravosa. È innegabile, però, che la terza partita apra scenari e verità narrative che al primo giro erano solo ombre, e che cambiano radicalmente la percezione del viaggio di Hinako.
Il problema sta quindi nel bilanciamento tra ricompensa narrativa e sforzo ludico. Per il fan storico della saga o per chi conosce e ama la scrittura di Ryukishi07, Silent Hill f è un’esperienza imperdibile, capace di restituire emozioni, immagini e simboli che lasciano il segno. Ma richiede anche fiducia, tempo e una certa disponibilità a convivere con gli spigoli del sistema di combattimento e le zavorre citate nel paragrafo precedente. Se invece cerchi soprattutto un gameplay snello e teso, la frizione crescente degli scontri e la ripetizione dei contenuti potrebbero pesare parecchio.

Quanto alla durata, i numeri sono variabili anche in base alla difficoltà scelta (è possibile impostare difficoltà separate per combattimenti e enigmi, con la difficoltà più alta che si sblocca solo al termine del primo playthrough). Le partite successive sono più rapide, certo, ma non così brevi da rendere indolore la reiterazione. Il gioco ti chiede davvero di tornare sulle stesse strade, sugli stessi corridoi, sulle stesse paure. Non tutti accetteranno questo patto. Ma per chi sceglierà di onorarlo, il viaggio si rivelerà una spirale discendente e insieme ascendente, capace di rivelare a ogni ciclo un nuovo volto di Silent Hill f.
Una nuova identità: fedele ma non alla lettera
Silent Hill f prende una decisione che può sembrare spiazzante ma che, a ben vedere, è tra le più coraggiose dell’intero progetto: rinunciare al fan service facile. Non c’è l’Ordine, non c’è Pyramid Head, non ci sono rimandi insistiti agli elementi iconici che hanno reso celebre la saga. È una scelta rischiosa, perché sottrae al giocatore quel senso di “riconoscibilità immediata” che spesso viene invocato nei revival, ma al tempo stesso restituisce dignità a un brand che troppo spesso, in passato, era stato piegato a logiche di mercato più che a esigenze narrative. Silent Hill f non vuole essere un collage di citazioni: tenta invece di costruirsi una voce autonoma, di proporre un nuovo volto all’interno di un universo che non è mai stato definito da personaggi specifici, bensì da atmosfere, simbolismi e dialoghi interiori.
È vero: a tratti il gioco sembra quasi appartenere a un’altra serie. La nuova ambientazione giapponese, l’estetica floreale, il taglio narrativo tipico di Ryukishi07 potrebbero far pensare a un titolo originale mascherato da Silent Hill. Eppure, se ci si libera dall’attaccamento alle icone più abusate, si scopre che l’essenza della saga è qui, più viva che mai. L’anima di Silent Hill non risiede in un nome proprio, ma nel modo in cui un luogo, che sia città, villaggio o comunità, diventa uno specchio deformante delle paure, delle colpe e delle contraddizioni dei suoi abitanti. In questo senso, f è sorprendentemente ortodosso: non si limita a evocare l’orrore esterno, ma lo fa coincidere con quello interiore, trasformando l’ambiente in riflesso e carcere dell’identità.
Bellezza e mostruosità: quando l’arte fa male
Definire Silent Hill f “visivamente riuscito” sarebbe un eufemismo. L’impatto estetico del titolo non si limita a generare repulsione o a compiacere l’occhio con dettagli tecnici: è un linguaggio, un sistema di segni che racconta tanto quanto i dialoghi e gli eventi narrativi. Le creature, poche nel numero, diventano icone per la loro capacità di incarnare concetti. Ogni deformità, ogni postura innaturale, ogni ritmo di movimento non è casuale: c’è un significato che trasuda dalle carni, un riferimento all’esperienza di Hinako e ai temi sociali che la storia affronta. L’orrore nasce non dal mostro in sé, ma dal riconoscere un frammento di umanità riflesso nel suo corpo, e nel capire che quella deformità è solo la manifestazione esteriore di una sofferenza interiore. L’animazione non concede mai al giocatore un appiglio stabile. Gli scatti improvvisi, i micro-sussulti, i tempi morti innaturali negano la prevedibilità: non c’è fluidità, ma una sorta di inquietudine motoria che impedisce al cervello di categorizzare il movimento come familiare. Le inquadrature, spesso serrate e ravvicinate, trasformano i corpi deformi in paesaggi da esplorare visivamente: arti che diventano architetture, volti che si perdono in pieghe e fiori carnosi, superfici cutanee che ricordano tessuti vegetali.

L’aspetto sonoro amplifica ulteriormente questo effetto. Ogni passo su un pavimento scricchiolante, ogni respiro al limite dell’udibile, ogni riverbero che si propaga nello spazio ha una funzione precisa: orientare la tensione più che la posizione. Non è il suono che informa, ma il suono che insinua. È come se la colonna sonora e il sound design fossero concepiti come un’unica entità viva, che respira insieme all’ambiente. Le voci giapponesi si rivelano fondamentali: nel contesto storico e culturale in cui è ambientato il gioco, il doppiaggio non è solo un accessorio, ma un ponte diretto verso l’autenticità.
La colonna sonora, firmata in parte da nuove voci come dai e xaki, intreccia sapientemente richiami alla tradizione sonora di Silent Hill con innesti legati alla cultura musicale giapponese. Drone ossessivi, corde stridenti, percussioni ridotte all’osso e improvvisi squarci melodici creano un tessuto che alterna disagio e contemplazione. Alcuni brani, come Mayoi Uta e The Bird’s Lament, non si limitano ad accompagnare: restano in testa e sedimentano, diventando quasi mantra disturbanti che riaffiorano anche quando si ritorna al desktop. E poi c’è la mano inconfondibile di Akira Yamaoka. Non tanto nei brani più evidenti, quanto nella cura del silenzio, nel vuoto sonoro che diventa lama e taglia l’attenzione del giocatore. Il silenzio qui non è mai neutro, non è mai semplice assenza: è un suono potenziale, un campo di tensione che può esplodere in qualsiasi momento. È un ritorno al concetto originario della serie, quello in cui il non detto, il non mostrato e il non udito hanno più peso della carneficina a schermo.
In Silent Hill f, dunque, bellezza e mostruosità si fondono. Le creature non sono solo da temere: sono da interpretare, da contemplare persino, come opere d’arte disturbanti. L’audio non è solo atmosfera: è un linguaggio che ti guida e ti tradisce. È un’esperienza sinestetica, dove guardare e ascoltare fa male, e proprio per questo resta impressa come poche altre.

In conclusione
Un’opera visionaria, intensa, segnata da un’estetica memorabile e da una scrittura che morde. Ma anche un’esperienza zavorrata da un gameplay a tratti fuori fuoco, che rischia di soffocare l’angoscia sotto il rumore delle sue stesse meccaniche. Un Silent Hill imperfetto, ma autentico, che sceglie di rischiare e per questo merita di essere vissuto.

8.5Voto KotaWorld.it9Grafica8Gameplay8.5Ottimizzazione





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